Felicità individuale e sostenibilità: in occasione della Giornata internazionale della felicità, UNRIC Italia intervista il Professor Marcello Di Paola

Domenica si è celebrata la Giornata internazionale della Felicità, una giornata che invita a riconoscere l’importanza del benessere e della felicità nella vita di ogni individuo. I nuovi Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (SDGs), mirando ad eliminare la povertà, a ridurre le ineguaglianze e a salvaguardare il nostro pianeta, abbracciano gli elementi chiave che sono alla base del nostro benessere. Ecco perché quest’anno le Nazioni Unite hanno deciso di celebrare questa Giornata della felicità ricordando l’Obiettivo numero 13 e quindi sottolineando il legame tra un pianeta sano e protetto e la felicità e il benessere degli individui. “Un pianeta felice, delle persone felici” così ha detto il Segretario Generale Ban Ki-moon e per comprendere meglio il legame tra sostenibilità e benessere individuale, il Desk italiano di UNRIC ha intervistato Marcello di Paola, professore di Filosofia Politica e Sviluppo Sostenibile alla LUISS di Roma.

Con l’adozione dei nuovi Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile, le Nazioni Unite si sono impegnate a creare entro il 2030 un nuovo paradigma economico-sociale più sostenibile, equo ed inclusivo. Qual è il legame tra sostenibilità e benessere umano? E in che modo la sostenibilità può promuovere la felicità degli individui?

Parte del motivo per cui è importante parlare di sostenibilità in termini di esperienza e coinvolgimento a livello individuale ha a che fare con il fatto che questo ci permette di comprendere meglio il concetto di sostenibilità in sé, consentendoci di trarre alcune distinzioni importanti. Infatti, rivolgere la nostra attenzione verso gli individui ci permette di fare una prima distinzione: quella tra sostenibilità e il concetto di sviluppo sostenibile.

Abbiamo spesso sviluppato il concetto di sostenibilità in riferimento a quello di sviluppo sostenibile. Il concetto di sviluppo sostenibile è complesso e molto fertile, ma allo stesso tempo fa ancora riferimento a un modello di sviluppo riguardante i popoli e le generazioni. Si tratta di un modello per la collettività e quindi per le istituzioni che regolano la vita collettiva, e mira a raggiungere il benessere collettivo. Il coinvolgimento degli individui avviene spesso per opera dell’amministrazione del governo, attraverso inviti ed incentivi per attuare dei “cambiamenti di stile di vita”. Questi cambiamenti sono spesso interpretati come un insieme di sacrifici da attuare: consumare di meno, guidare meno, viaggiare meno, o spendere più soldi per fare queste stesse cose ma in modo più sostenibile. Inoltre, secondo lo sviluppo sostenibile, questi sacrifici devono essere fatti per salvaguardare il benessere di coloro che sono più vulnerabili contro problemi come il cambiamento climatico, l’inquinamento e l’esaurimento delle risorse: i poveri del mondo e le generazioni future (alcuni vorrebbero poter aggiungere anche la natura, ma lo sviluppo sostenibile ha sempre avuto un’impronta prettamente antropocentrica). Le persone vulnerabili sono lontane nello spazio e nel tempo, e quindi psicologicamente troppo distanti: noi non siamo abituati a preoccuparci di coloro che non conosciamo e con cui non interagiamo fisicamente. Per questo motivo, è comprensibile che la maggior parte di noi tende ad evitare di attuare tali cambiamenti di stile di vita, in quanto questi cambiamenti sono intesi appunto come sacrifici in favore di persone che sono invisibili ai nostri occhi.

La sostenibilità, invece, non è un modello di sviluppo, ma è una qualità – una qualità di sistemi e di pratiche, una qualità attribuibile a qualsiasi tipo di sistema e pratica. È una qualità che i sistemi e le pratiche possono possedere ognuno in misura diversa – o ancora è possibile affermare che la sostenibilità può essere intesa come la capacità di tali sistemi e pratiche di evitare o di affrontare con successo vari tipi di situazioni di scarsità, o la capacità di ridurre o di eliminare i costi ed evitare varie forme di vulnerabilità. In questo senso, le condizioni di scarsità, i costi, e le vulnerabilità possono essere considerati come dei problemi collettivi dal punto di vista ecologico, economico e sociale, – come nel modello di sviluppo sostenibile. Tuttavia ci possono essere anche dei problemi psicologici, etici e politici a livello individuale. Per capire la sostenibilità intesa come una qualità significa comprendere che delle esperienze anche molto personali – come le relazioni a lunga distanza, tra persone che vivono in grandi città e che lavorano in proprio- possono essere insostenibili per le stesse esatte ragioni per cui il sistema alimentare, finanziario ed energetico corrente è insostenibile: entrambi generano e deve far fronte a situazioni di scarsità, costi e vulnerabilità. La vita urbana, ad esempio, è in una certa misura insostenibile per molte persone, perché implica un ritmo elevato, una complessità, un minor numero di occasioni per rapporti sociali rilassati, e meno possibilità di interazione con la natura. Tutto questo ha determinato effetti negativi sulla psicologia individuale. Per questo motivo la sostenibilità, intesa come qualità, riguarda tanto il sistema climatico quanto la psicologia individuale.

Un altro modo per collegare la sostenibilità e gli individui è riflettere sulla valuta della sostenibilità: il benessere. Anche se continuiamo a concentrarci sul benessere individuale aggregato e non, oggi abbiamo modi per raccogliere e aggregare dati riguardanti molti aspetti del benessere individuale, senza dover contare su degli indicatori approssimativi e chiaramente incompleti come il reddito. La psicologia sperimentale ci permette oggi di guardare con più precisione a quello che la gente vede come un bene per se stessa. E mentre i beni come il denaro, i beni materiali e il prestigio sociale – “beni esterni”, come li chiamava Aristotele – sono considerati da tutti come necessari per una vita soddisfacente, allo stesso tempo essi non sono considerati da nessuno come sufficienti per tale obiettivo. Infatti, disponendo di una quantità sufficiente di “beni esterni”, le persone tendono ad apprezzare altre cose. La psicologia ci dice che le nostre vite individuali sono sostenibili se includono, oltre ai beni esterni, anche “beni interni” come le emozioni positive, un senso di coinvolgimento con le pratiche che definiscono la propria vita (come il proprio lavoro, ad esempio), il soddisfare le relazioni sociali, un senso di appartenenza a qualcosa di più grande di se stessi che dà un senso alla propria vita, e un senso di realizzazione personale. Tutti questi beni interni hanno a che fare con la qualità delle pratiche piuttosto che con la quantità dei risultati. Sono quei beni della prassi (per fare le cose bene), che Aristotele distingueva da poiesis (fare le cose). Nessuno di questi beni interni implica l’utilizzo di risorse scarse, la produzione di inquinamento, o le emissioni di gas serra. Hanno anche poco o nulla a che fare con i sacrifici. Quello che la psicologia ci dice è quindi che “cambiare stile di vita” per la sostenibilità non implica necessariamente una perdita netta di benessere individuale: anche se alcuni beni esterni dovranno davvero essere sacrificati (e non vi è alcuna necessità di pensare che questo sia necessariamente vero), la relativa perdita di benessere economico dell’individuo può essere compensata con un corrispondente aumento di beni interni.

Sembra quindi che, quando si parla di individui, ciò che è necessario per la sostenibilità è l’insieme di pratiche che consentono anche di sperimentare emozioni positive, di dare un senso al proprio vissuto e di permettere un coinvolgimento significativo con il proprio mondo, sia sociale sia naturale

Considerando quindi la sostenibilità come qualità di pratiche e sistemi, quali tipo di pratiche concrete permettono allo stesso tempo di proteggere il pianeta e di contribuire al benessere di ciascun individuo? 

Un esempio di questo tipo di pratiche è rappresentato dal giardinaggio urbano. I giardini urbani e il giardinaggio possono fare grandi cose per la sostenibilità urbana. Essi rappresentano degli strumenti noti e disponibili che oggi possono essere riscoperti, aggiornati, condivisi, e che possono aumentare la sicurezza alimentare, difendendo allo stesso tempo la sovranità alimentare; possono ridurre le varie forme di inquinamento, nonché le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera in modo sia diretto che indiretto; possono ridurre la produzione complessiva di rifiuti urbani e fornire dei bacini di raccolta per uno smaltimento più intelligente dei rifiuti organici. I giardini urbani possono anche essere strumenti per la rigenerazione di spazi urbani abbandonati o trascurati, per la tutela di numerose specie vegetali e animali, e per la valorizzazione del patrimonio naturale e culturale, materiale e immateriale.

Inoltre, i giardini, il giardinaggio, ed i giardinieri possono far parte e promuovere economie locali sostenibili che possono, data la rilevanza planetaria di alcune località urbane (ad esempio le megalopoli come New York, Rio, Londra, Tokyo, Pechino e altri) indebolire le infrastrutture globali di produzione già presenti, che si stanno dimostrando insostenibili. Possono essere importanti elementi di strutture innovative per la governance locale e per delle migliori pratiche trasferibili a livello globale. Essi possono anche diventare contesti per un’educazione sperimentale sul e per l l’ambiente, un centro di scambio culturale, un’incentivo per l’apprendimento collettivo, e catalizzatori di una maggiore inclusione sociale.

Ma cosa ancora più importante è che la rete di giardinaggio urbano oggi può aprire nuove strade per la partecipazione e l’impegno politico, come anche rivelare importanti fonti di significato e di valore nella e per la nostra vita in un tempo eticamente difficile come quello dell’Antropocene, questa nuova epoca, in cui ogni posto, forma, entità, pratica o sistema della terra è stato toccato dall’attività dell’uomo.

In quest’epoca dell’Antropocene, quali sono i maggiori ostacoli che gli individui incontrano nel momento in cui desiderano cambiare il loro stile di vita per ottenere una maggiore sostenibilità?

La caratteristica più evidente dell’Antropocene è la crescente popolazione umana e la sua domanda di energia, cibo, beni, servizi e informazioni, insieme alla necessità di disporre dei suoi rifiuti. Gli esseri umani che sono sopravvissuti all’ultima era glaciazione, circa 12.000 anni fa, erano probabilmente circa 6 milioni di persone che vivevano come cacciatori-agricoltori. Oggi ci sono più di 7 miliardi di persone sul pianeta, un numero destinato a crescere fino a 9 miliardi entro i prossimi 30 anni, e fino a 11 miliardi entro il 2100. E si può facilmente immaginare che tutte queste persone hanno una legittima pretesa di vivere una vita felice e soddisfacente.

La tecnologia è un’altra parte importante della storia dell’uomo. L’umanità che sta nuovamente trasformando il pianeta è organizzato in sistemi altamente complessi legati insieme da oleodotti e gasdotti, cavi elettrici, viaggi aerei, autostrade, binari del treno, cavi in ​​fibra ottica, e connessioni satellitari. La tecnologia consente dei livelli di produzione e di consumo che hanno permesso all’umanità di crescere raggiungendo delle dimensioni senza precedenti.

Gli effetti congiunti di una popolazione crescente, di un consumo elevato, di potenti tecnologie hanno avuto implicazioni senza precedenti. In un certo senso ci sentiamo capaci di fare molte più cose: siamo in grado di salvare un bambino in un paese lontano semplicemente con una telefonata e facendo una donazione; delle persone a Las Vegas possono controllare un drone senza pilota in grado di inseguire e uccidere un gruppo di terroristi in un altro continente; utilizzando una carta di credito si possono fornire vari i tipi di servizi in varie parti remote del mondo; pochi clic al computer ci permettono di registrare immediatamente le nostre opinioni su tutto e condividerle a livello globale.

Ma per altri aspetti siamo fondamentalmente impotenti. Anche a causa della stessa tecnologia, delle nostre piccole azioni possono avere ripercussioni su ben oltre le loro coordinate spaziali e temporali, spesso in modi sorprendenti e indesiderati. Ad esempio, usando un interruttore della luce posso attingere ad una fonte di petrolio molto distante e di conseguenza causare, rafforzare e promuovere ulteriormente le emissioni di gas ad effetto serra, che rimarranno nell’atmosfera per secoli. L’accumulo di tali azioni localizzate, innocue e apparentemente banali se prese singolarmente, possono alterare in modo significativo i sistemi planetari determinando conseguenze a livello globale, che a loro volta possono ripercuotersi a livello locale. Insieme stiamo alterando il clima, portiamo alcune specie verso l’estinzione, e contribuiamo all’acidificazione degli oceani – danneggiando in tal modo gli esseri umani e gli ecosistemi in luoghi e tempi lontani, ed in ultima analisi causando problemi nei luoghi in cui viviamo, a noi stessi, e alle famiglie che amiamo.

Molte persone non riescono a scorgere alternative reali alle scelte e alle azioni che ci stanno portando verso l’orlo del precipizio. Potrei smettere di usare l’elettricità, ma so che questo mi escluderebbe dal mondo in cui vivo e non mi aiuterebbe a fermare il cambiamento climatico. Eppure nel momento in cui uso un interruttore della luce divento complice di una rete globale di interessi finanziari ed economici che alterano l’ambiente, di vari accordi politici e rafforzamenti culturali la cui configurazione, ancora in continua evoluzione, mi è in gran parte sconosciuta, ma che allo stesso tempo non ho la libertà di eludere e così all’improvviso mi ritrovo a promuoverle con il mio comportamento.

L’ironia sta nel fatto che dopo secoli di modernità e progressi per l’autonomia umana, ci ritroviamo nell’Antropocene con un diffuso senso di impotenza e di una perdita del controllo delle proprie azioni. Insieme stiamo modificando il pianeta e minando le condizioni della nostra esistenza, anche se nessuna decisione individuale o collettiva è stata mai presa con questo obiettivo in mente. I sistemi naturali e umani vengono trasformati non come risultato di un piano razionale, ma al contrario a causa degli effetti indesiderati di forze e strutture sistemiche che si sono sedimentate e stratificate in un modo tale che sembrano dominare le nostre vite, le nostre economie, e la nostra politica.

Di fronte a queste difficoltà e a questo senso di impotenza individuale e collettivo, in che modo i giardini urbani possono aiutare a proteggere l’ambiente e promuovere il benessere umano?

Il giardinaggio urbano può restituire azione morale e politica agli individui, le cui vite sembrano oggi essere irrimediabilmente irrilevanti di fronte a vasti problemi collettivi e lontani nello spazio e nel tempo, come il cambiamento climatico, nonché di fronte alle stratificate e complesse reti di istituzioni umane, e agli stessi sistemi e processi che hanno causato questi problemi. Inoltre, la pratica del giardinaggio consente alle persone di assumersi la propria responsabilità per il perseguimento di azioni alternative a tali reti stratificate, e questo a sua volta può rafforzare il loro senso di potere d’azione e quindi innescare una dinamica etico-positiva attraverso la quale gli individui innescano ulteriori pratiche alternative e riabilitanti dal punto di vista morale e politico.

Le sfide ecologiche e sociali dell’Antropocene sono state determinate dall’umanità ed è necessario che l’umanità stessa le gestisca. E queste sfide non sono problemi circoscritti che possono essere definitivamente risolti, ma piuttosto sono problemi sistemici e interconnessi che persistono e possono essere gestiti solo in modo adattivo. Non vi è alcun punto d’arrivo per un tale sforzo, perché le circostanze problematiche devono essere gestite dallo stesso elemento che le ha scaturite.

Gli individui che si assumono le loro responsabilità attraverso il giardinaggio urbano impareranno l’atteggiamento giusto per il perseguimento della sostenibilità nell’Antropocene tramite il giardinaggio sé, ed in effetti perseguendo il più banale dei lavori del giardinaggio: togliere le erbacce. Questo è il cuore del giardinaggio, ed è essenziale. Non c’è giardino senza erbacce, in quanto le erbacce si diffondono grazie al giardiniere stesso, che le diffonde e le nutre mentre lavora il suolo e dà acqua alle sue piante. Le erbacce sono il risultato e il segno della presenza e dell’attività umana: a meno che l’uomo le abbia portate lì, non ci sono erbacce nella natura ‘selvaggia’. Esse si trovano piuttosto nei giardini, nei campi coltivati, e nelle città. Se il cambiamento climatico è il grande araldo dell’Antropocene, le erbacce sono le sue virali e reticolari  truppe di terra. Per ogni erbaccia che viene strappata, molte altre ne crescono dalla prima che è stata strappata via: i semi volano attraverso l’aria, o dei pezzi di radici rimangono nel suolo e danno vita a dei nuovi germogli. Il giardiniere produce le erbacce facendo il giardinaggio; ed essendo un giardiniere, egli deve eliminarle. Questo è un compito contraddittorio e disperato.

La battaglia contro le erbacce è la difesa di ciò che è importante per il giardiniere di fronte a una minaccia. Anche se le erbacce possono sembrare una minaccia esterna, in realtà il giardiniere difende i suoi spazi e le piante da loro stesse – dopo tutto, lui è il demiurgo delle erbacce. Nel difendere i suoi spazi e le piante, il giardiniere riconosce a pieno la minaccia rappresentata dalle erbacce. Tuttavia, poiché tale minaccia non è portata da un’intrusione esterna, ma ha origine dalla sua stessa pratica, il giardiniere è totalmente libero nel difendere i suoi spazi attraverso il giardinaggio. Così facendo, il giardiniere è padrone del suo mondo: ma solo momentaneamente, e solo in apparenza, poiché le erbacce riprendono la loro crescita nell’istante in cui sono tirate fuori e proprio perché esse sono strappate via dal terreno. La battaglia contro le erbacce è implacabile e senza fine: non ci sarà un giorno in cui le erbacce saranno sconfitte in modo permanente, e il lavoro del giardiniere sarà finito. Al contrario, un giorno sarà inevitabile che il giardiniere non sarà più presente, e le erbacce avranno più di quello che una volta era suo.

Se la sua pratica è contraddittoria e disperata – allora perché, e in nome di che cosa, il giardiniere fa il suo lavoro? Esclusivamente per il giardinaggio in sé: il giardiniere difende i suoi spazi e le sue piante semplicemente perché contribuiscono a creare un mondo migliore per lui- niente di più, niente di meno. Tuttavia, per proteggere e promuovere tale mondo, deve prima accettare il modo in cui funziona. Le erbacce sono portati dalla sua stessa azione; non andranno via da sole; e strappandole via, ne cresceranno ancora di più. Per questo motivo, nella sua stessa azione di pulizia delle erbacce un giardiniere rinuncia al suo sogno di porre un termine alle sue fatiche, e semplicemente abbraccia ed accetta il modo in cui funzionano le cose. La sua pratica, contraddittoria e disperata com’è, una volta accettata come tale, diventa una pratica felice nel senso inteso da Democrito: una forza che non mira a nessun obiettivo finale e predeterminato – che, per questo motivo, si auto-genera e che è quindi in ultima analisi libera. Una forza risoluta, la cui libertà e la dignità risiede proprio nella sua fermezza – nel suo essere costantemente e accuratamente messa in pratica. In poche parole, un giardiniere sa bene che la partita non può essere vinta, ma allo stesso tempo non permette che questo sia sufficiente per squalificarlo come giocatore. Contestando ciò che non può essere contestato, il giardiniere riafferma la sua libertà d’azione, i suoi modi di agire, e la dignità del suo operato. Tale pratica può essere replicata a volontà, e la soddisfazione transitoria, ma momentaneamente pervasiva, di un lavoro ben fatto non è mai preclusa. Questo è motivo di allegria.

La felicità nell’Antropocene non è quindi una negazione, ma un’accettazione delle nostre circostanze. Proprio come il giardiniere elimina le erbacce, al fine di difendere la congenialità dei sistemi ecologici di base, è necessario che noi ci difendiamo da noi stessi. E non vi è alcun obiettivo finale da raggiungere, proprio perché si cerca di risolvere circostanze problematiche e sistemiche che sono causate e rinforzate da noi stessi. Nonostante questo, l’attore felice non si tirerà fuori dal gioco, ma giocherà ogni giorno, senza deviazioni, scuse, o delegando ad altri. In questo modo, l’individuo riaffermerà la sua libertà e la sua dignità, imparando a celebrare orgogliosamente la sua umanità senza condannarla, anche nei casi di disastri di origine prettamente umana. L’individuo imparerà a godersi il riposo e la gioia nei momenti transitori di soddisfazione a seguito di successi locali e nel processo di raffinazione del suo personale concetto di successo così come nei suoi modi di perseguirlo. Non vorrà tornare al suo precedente senso di inutilità generale.

L’opportunità di perseguire questi momenti transitori di soddisfazione rimane aperta nel Antropocene, e la capacità di coglierla risiede nella nostra iniziativa ed esercizio fisico. Questo è motivo di felicità, e questa felicità può ulteriormente motivarci alla sostenibilità.

Dunque questa felicità diventa così una possibilità etica che si può attuare impegnandosi liberamente in una serie di pratiche di diversi gradi di complessità e perseguendole con risolutezza. L’obiettivo non è principalmente quello di raggiungere degli obiettivi moralmente soddisfacenti attraverso dei sacrifici, ma aprirsi a ed esplorare tutte le opportunità di sviluppo e comprensione personale che un impegno deciso in pratiche significative per la sostenibilità può offrire.

Il Professor Di Paola è stato anche uno speaker per la prima edizione di TEDxLUISS. 

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