Giornata internazionale della felicità – Intervista al Professor Luigino Bruni coordinatore del progetto “Economia di Comunione” (20 marzo 2014)

Il 12 luglio 2012, la 66° sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha proclamato il 20 marzo come Giornata internazionale della felicità. 

UNRIC Italia ha scelto di portare l’attenzione del pubblico italiano su questo tema chiedendo il contributo del Professor Luigino Bruni, ordinario di Economia Politica all’Università Lumsa di Roma e coordinatore a livello mondiale del progetto “Economia di Comunione” – lanciato da Chiara Lubich in Brasile nel 1991 e intorno al quale ruotano circa 1000 aziende nel mondo. Economia di Comunione propone agli imprenditori la condivisione degli utili delle proprie aziende per progetti di sviluppo in varie parti del mondo, e pone le proprie basi su una cultura economica basata sulla reciprocità e sul dono.

Domanda: Lei Prof. Bruni è uno dei primi studiosi che ha rilanciato una tradizione italiana della felicità diversa da quella che proviene dagli Stati Uniti. Può spiegarci meglio le radici di questa visione della felicità?

Risposta: L’origine più remota dell’idea di felicità la si trova nella cultura antica greca e romana, in particolare Aristotele aveva legato la felicità alle virtù e l’aveva distinta dal piacere. L’eudaimonia, così la chiamava, era un concetto che oggi dovremmo tradure con “fioritura umana” perché rimanda all’idea che la felicità sia uno stato generale dell’esistenza, e che quindi come tale abbia a che fare più con l’ “essere” ed il ”fare” che non con il “sentire”. A Roma la felicitas, spesso abbinata con publica fu un concetto fondamentale:  felicitas rimandava alla generatività della vita e alla coltivazione delle virtù. Il prefisso fe è infatti lo stesso di fecundusferaxfetusfemina. Gli alberi erano chiamati infelix (sterili) e felix (fico, olivo). E il verbo latino feos ignifica proprio produrre. Non è un caso che le immagini latine della felicitas publica– che ritroviamo anche nelle monete – rimandassero ai bambini, alle donne (spesso incinte) e all’agricoltura. La Campania felix era felice per l’abbondanza delle sue campagne e per la fertilità della terra. Felicità è quindi fioritura umana.  I greci, in uno dei momenti epocali della storia umana – l’anima fondamentale della cultura romana successiva – capirono che stava iniziando “l’era degli uomini”, che potevano essere finalmente liberati dalla dea bendata, dalla sorte, e da tutta quella magia che domina sempre nelle culture basate sulla fortuna. Lo strumento di questa liberazione fu proprio la virtù (areté), poiché solo l’uomo virtuoso può diventare felice coltivando le virtù, anche contro la cattiva sorte. È qui che inizia la nostra responsabilità, perché si inizia a poter dire che il principale protagonista della mia felicità (e infelicità) sono proprio io, e non gli eventi esterni, che certamente pesano  nel mio benessere, ma che non sono mai decisivi nel determinare la felicità.

Domanda: Ma come è entrata questa idea di felicità nella scienza economica?

Risposta: Gli economisti ed i filosofi italiano del Settecento (Antonio Genovesi, Giacinto Dragonetti, Pietro Verri e molti altri) con un esplicito riferimento alla tradizione romana e medievale della felicità pubblica e poi al bene comune,  posero la felicità – in particolare la pubblica felicità – al centro della loro riflessione economica e civile. Scegliendo la felicità pubblica come scopo dell’economia, avevano ben chiaro che il passaggio dai beni al ben-essere è sempre complesso, e che molte dimensioni della felicità si possono perdere nel processo di traduzione (dalla ricchezza “wealth” alla felicità). Per tutto l’Ottocento la scuola italiana di economia continuò a caratterizzarsi per avere la felicità come principale oggetto di studi, tanto che sul finire del secolo diciannovesimo l’economista italiano Achille Loria scriveva: “Tutti i nostri riportando una tesi di dominio comune nell’Italia del tempo – si occupano non tanto, come Adamo Smith, della ricchezza delle nazioni, quanto della felicità pubblica”). Non è quindi un caso che ancora oggi gli economisti italiani sono tra i protagonisti del nuovo movimento su Economia e Felicità, riaperto negli anni 70, soffermandosi in particolare proprio sul nesso fra felicità e relazioni sociali, un’eco evidente della antica tradizione della felicitas publica.

Domanda: Quali gli aspetti più rilevanti della felicità per la vita economica  e civile del nostro tempo?

Risposta: Il primo elemento  che mi sembra particolarmente rilevante per la situazione in cui si trovano la nostra economia e la nostra società è il nesso profondo fra la felicità e le virtù. In una cultura che sempre più sottolinea il piacere edonistico e lo svago come valori abbinati alla felicità, l’antica tradizione italiana della felicitas publica ci invita invece a tener ben presente che non c’è vita buona individuale e sociale senza la coltivazione dell’eccellenza (virtù viene da aretè che in greco significa proprio eccellenza) e quindi senza l’impegno e il sacrificio. In secondo luogo in una fase dell’Occidente in cui il narcisismo sta diventando una vera e propria pandemia, la tradizione della pubblica felicità ci ricorda il nesso imprescindibile fra vita buona e rapporti sociali: non si può essere veramente felici da soli perché la felicità nella sua essenza più profonda è un bene relazionale. Si coglie allora che la felicità deve essere invocata soprattutto come strumento di critica allo status quo e alla vena edonistica che fin dall’antichità ha sempre attraversato la nostra cultura, e che è diventata dominante nei tempi del declino e della decadenza. Come ci ricordano oggi filosofi come Amartya Sen e Martha Nussbaum , la ricerca del piacere è troppo poco per poter parlare di felicità, perché esistono delle “buone sofferenze” (good pains) e dei “cattivi piaceri” (bad pleasures), cosa che dimentica sistematicamente ogni cultura edonista. La Giornata della Felicità allora deve essere una occasione per riflettere seriamente sul nostro modello di sviluppo e sul nostro stile di vita senza far ricadere anche questa giornata dentro il “festival delle banalità” che ci porterebbe a festeggiarla  limitandoci a  inserire qualche smile qua e là su facebook o su whatsapp. La felicità pubblica invece ci invita a riflettere sui patti sociali, sui legami e sulle radici profonde della vita in comune.

Attualità